Dott.ssa Nicoletta Catani
“Finchè non avrai chiesto a chi ti sta di fronte almeno qualche frammento della sua biografia sospendi ogni giudizio. L’ascolto di una storia di vita è il requisito, in fondo antichissimo, che accende una possibile amicizia tra sconosciuti”. ( Duccio Demetrio)
Negli anni novanta, gli eventi, le storie cominciano ad essere considerate in una prospettiva particolare, legata alle diverse situazioni specifiche che si incontrano sulla scena sociale e nella stanza di terapia. Si affermano nuove impostazioni che privilegiano il costruzionismo, il conversazionalismo e la terapia narrativa.
L’individuo, al pari del sistema, viene considerato “frammentato”, dotato di un’identità “saturata” (Gergen, 1991) dagli innumerevoli messaggi che gli giungono dall’ambiente, e indebolita al punto da dar luogo a una molteplicità di Sè continuamente variabile a seconda dei contesti, delle situazioni, delle informazioni che riceve. L’incessante sviluppo tecnologico ostacola le persone rispetto alla possibilità di dare un senso alla propria vita. Il Sé perde ogni riferimento stabile, non è più rinchiuso dentro un’unica narrazione. Non esiste più una verità, ma tante idee che hanno valore all’interno del contesto e delle caratteristiche della comunità che le crea.
In terapia, l’interazione tra individui, famiglie e terapeuta, permette un processo di ricostruzione di nuove storie, che rende i pazienti più forti e meno sofferenti. Il terapeuta stimola il paziente nel costruire nuovi significati alle storie raccontate.
Per il terapeuta postmoderno tutte le narrazioni sono allo stesso modo valide e relative. Come rimedio all’eccessivo relativismo, il costruzionismo sociale cerca di risolvere il problema dei significati e dell’identità collocandoli nella relazione. La conversazione nel corso della terapia permette di sviluppare l’identità attraverso l’interscambio sociale. La terapia come generatrice di conversazioni differenti e multiple porta alla revisione delle narrazioni su cui poggia l’identità di chi chiede aiuto.
Le storie in terapia: trasformazione terapeutica delle trame narrative
Dice Bateson: “Pensiamo per storie perché siamo costituiti da storie, immersi in storie, fatti di storie”.
Una storia è un processo che si distende nel tempo e che lega, connettendoli, i protagonisti ad una cornice contestuale significante. La storia racconta il nostro essere, il nostro carattere, la modalità di costruire e rompere i legami, le relazioni affettive significative, il modo di costruire gli eventi concatenandoli gli uni agli altri. Ogni storia è un racconto che può essere costruito in mille modi: nessuno di questi è mai giusto o sbagliato, anche perché non è necessario che una storia sia realmente accaduta per essere vera.
Un racconto non è solo la descrizione di fatti ed eventi, ma sempre un contesto e una relazione, poiché presuppone la presenza di un altro che ascolta. Il racconto veicola affetti ed emozioni.
La narrazione come strumento per la costruzione identitaria
La narrazione individuale di storie genera l’organizzazione mentale di una biografia personale che, intrecciata con le storie di altre vite, contribuisce a donare un senso alle proprie esperienze ed alla propria esistenza. Le nostre vite sono infatti incessantemente intrecciate alle narrazioni, alle storie che raccontiamo o che ci vengono raccontate, a quelle che sogniamo o immaginiamo o vorremmo poter narrare.
Nel corso della vita, non facciamo altro che raccontare noi stessi attraverso storie che rappresentano dei veri e propri atti narrativi in quanto frutto di operazioni attive di organizzazione ed elaborazione dei diversi episodi che riteniamo più importanti per la nostra vita.
Tale operazione, tuttavia, non nasce esclusivamente dall’esigenza di raccontarci all’esterno, bensì dalla necessità di dare un senso a ciò che ci accade, di collegare i diversi eventi che costellano la nostra esistenza. Nasce dal desiderio di raccontarci a noi stessi.
Oltre ad essere un essenziale strumento relazionale quindi, la narrazione rappresenta anche, e soprattutto, la via attraverso cui dare forma alla propria identità. Le esperienze che l’Io compie danno forma all’ identità: narrarle dà loro un senso, le inserisce in un contesto, in un tempo e quindi in una storia già esistente.
Quando si narra si costruisce una propria visione di se stessi e si diventa quindi consapevoli della propria esistenza: e quando si racconta qualcosa si opera una selezione del materiale disponibile. Quello che viene narrato, poi, è sempre influenzato da chi ascolta o da chi immagino stia ascoltando. Nel momento in cui si narra, si compie una scelta: si sceglie cosa narrare di se stessi e cosa no, cosa far trasparire, si organizzano i tempi, le intonazioni, le espressioni facciali, le parole, la voce, le pause…
L’attività narrante quindi si completa e acquista senso solo se c’è un ascoltatore della narrazione. Non è sufficiente, infatti, che qualcuno narri se non c’è nessuno che ascolti ciò che sta narrando. All’intenzionalità di chi racconta, quindi, è sempre indispensabile si leghi l’intenzionalità di chi sta ascoltando quel racconto.
La portata del pensiero narrativo è ampia. Bruner (2002) ha messo in evidenza come lo scopo delle narrazioni è quello di fornire il senso delle cose, di dare forma ai fenomeni ed agli eventi. La narrazione presenta infatti una straordinaria capacità di raccordo con le modalità con cui le persone vivono la propria vita, le assegnano significato, intessono relazioni, costruiscono nessi fra gli eventi in una prospettiva individuale.
La narrazione autobiografica, nello specifico, è il racconto che una persona decide di fare sulla vita che ha vissuto, descrivendo nel modo più onesto e completo possibile ciò che ricorda di essa e ciò che vuol far sapere agli altri riguardo ad essa. (R. Atkinson 1998).
Il metodo autobiografico mira a cogliere la soggettività, l’unicità, la vitalità del soggetto e delle sue traiettorie d’apprendimento, di trasformazione ed espressione di sé e di attribuzione di senso alle proprie pratiche (Formenti 1998). Il pensiero narrativo è molto legato al contesto ed alla situazione particolare da cui si sviluppa. Possiede una diacronicità narrativa o sequenzialità. Il riferimento è sempre a eventi particolari e concreti in cui è presente la dimensione dell’intenzionalità. “I nessi che noi costruiamo tra i nostri diversi saperi sono puramente soggettivi e esperienziali. Sono tracce del nostro esistere e di come abbiamo lasciato la nostra impronta nel mondo nello stesso tempo che il mondo lasciava le sue impronte su di noi. Inevitabilmente, che lo vogliamo o no, noi mettiamo in relazione, creiamo, conosciamo, narriamo… come solo noi siamo capaci a fare” (D. Fabbri 1998).
In ambito formativo il raccontare ed il raccontarsi consente di orientare lo sguardo su aspetti particolari dell’esperienza e sviluppare nel soggetto in formazione questa capacità riflessiva su di sé. Il dispositivo narrativo contribuisce ad “educare alla relazione” ed è un potente “strumento di sviluppo della competenza emotiva”; consente di esplorare prima a livello individuale e poi in gruppo la dimensione cognitiva e affettiva dell’apprendimento, dell’insegnamento e del lavoro di cura, portando i partecipanti a riflettere su quali sono le dinamiche e sugli esiti. Complessivamente consente un ricco ed approfondito lavoro di crescita personale e professionale.
In sintesi il narrare, risulta essere uno strumento ad elevate potenzialità educative in ambito formativo, con una forte valenza interattiva tra utenti, famiglie, care givers e operatori, in grado di sollecitare emozioni intense nei formandi che rievocano le prime esperienze, uno spazio che diventa formalizzato e riconosciuto di attenzione alla propria storia di vita, come autobiografia e cura di sé (Demetrio 1996).
In conclusione si può affermare che il punto di vista narrativo si pone oggi nello scenario formativo come dispositivo il cui utilizzo presenta un notevole potenziale interpretativo, poiché consente di attribuire senso agli eventi ed alla realtà che le persone sperimentano e condividono nell’esperienza quotidiana. La narrazione può diventare un potente strumento di trasformazione della pratica clinica.
La narrazione come strumento di cura
“Occorre narrare per comprendere la sofferenza propria ed altrui.” (P. Cattorini)
La narrazione come strumento formativo e di cura ha lo scopo di far emergere gli aspetti più significativi dell’esperienza vissuta e di far riflettere sui modi con cui si apprende e si vive la relazione con il paziente e le sue esperienze di sofferenza. La narrazione valorizza la prospettiva e la visione del soggetto e dei suoi familiari e dà una nuova dignità a coloro che vivono in prima persona le situazioni di malattia e dolore.
All’interno della relazione psicoterapeutica si viene a creare tra paziente e terapeuta una polarità narratore-ascoltatore della narrazione. È fondamentale che ci sia intenzionalità da parte di entrambi per dar vita ad una costruzione narrativa che li coinvolga in quanto attori della relazione.
Per tutto il percorso della terapia paziente e terapeuta lavorano su realtà narrative che il paziente stesso crea. Al terapeuta non interessa se quelle realtà siano “veramente” accadute oppure no; ciò che a lui interessa è la ricostruzione che il cliente fa di ciò che è avvenuto.
Nel momento in cui si racconta qualcosa che appartiene al proprio passato, infatti, non lo si rivive, lo si ricostruisce. Ciò permette al terapeuta di liberarsi dai vincoli della verità e di lavorare sulla realtà narrativa che la persona sta raccontando e ri-costruendo insieme a lui.
Nel mentre che ci rappresentiamo e ricostruiamo “…ripensiamo a ciò che abbiamo vissuto, creiamo un altro da noi. Lo vediamo agire, sbagliare, amare, godere, mentire, ammalarsi e gioire: ci sdoppiamo, ci bilochiamo, ci moltiplichiamo” (Demetrio, 1995, pp.12).
La terapia diventa il luogo e il tempo all’interno dei quali si inizia a vivere esperienze nuove, versioni diverse della propria esistenza e, quindi, nuovi racconti.
Come sottolineano Malagoli Togliatti e Anna Cotugno, il terapeuta, nel corso della conversazione con le famiglie, ascolta la narrazione della storia presentata e poi si muove per mettere in luce alcuni elementi che corrispondono ai temi dominanti e che possono costruire un terreno fertile per operazioni trasformative. Le strutture narrative sono sistemi semantici che contengono una trama, dei personaggi e un contesto. I significati di queste componenti sono regolati e regolano lo svolgimento e il contenuto della storia. Qualsiasi alterazione rilevante del contenuto o delle modalità di narrazione comporterà delle modificazioni nella trama, nei personaggi, nelle situazioni, trasformando l’esperienza del narratore.
Il terapeuta postmoderno entra nella famiglia senza alcun’idea pronta su cosa dovrebbe o non dovrebbe cambiare. Insieme, mentre parlano, intervistatore e famiglia collaborano nel trovare insieme quelle informazioni e quelle idee per l’azione che sono diverse da quelle che la famiglia poteva avere in mente all’inizio, e anche diverse da quelle che all’inizio poteva avere in mente il terapeuta.
I pazienti, le famiglie che affrontano un problema di vita si trovano ad aver perso momentaneamente quella creatività visionaria necessaria a pensare che da qualche parte, fuori da quel mondo, esistono altre possibilità.
La storia rivisitata deve contenere elementi di familiarità e quindi attingere da quella vecchia. Ogni trasformazione infatti tende ad essere una combinazione alternativa delle componenti della storia precedente, introducendo differenze veicolate dal terapeuta e dai membri della famiglia.
A. Dinacci in “ Narrate genti le vostre storie: la narrazione nella consulenza e nella psicoterapia sistemica” sottolinea quanto sia importante ciò che i pazienti portano in terapia, al di là di ipotesi e di interpretazioni: il mondo dei pazienti e le loro parole che possono essere ascoltate come tali, prima dell’intervento delle teorie. Il linguaggio e il modo di pensare del terapeuta si avvicinano a quello dei pazienti. Il terapeuta abbandona la superiorità della posizione dell’osservatore e l’impresa terapeutica diventa collaborazione. La prospettiva narrativa si avvicina alla creazione consensuale di una serie di mondi possibili. I mondi possibili evocati dalle ipotesi sistemiche, formulate nel corso della terapia, possono, non solo influenzare “il mondo reale” dei pazienti, ma anche aiutarli a pensare in termini di mondi possibili. La terapia così non crea solo un contesto di apprendimento, ma un contesto di deutero-apprendimento ( apprendere ad apprendere)
Si verifica un intreccio tra narrazione e terapia e si possono distinguere due posizioni:
- “ La terapia come narrazione”: la narrazione è un mezzo in cui e attraverso cui operano i fattori di cambiamento della terapia. La narrazione è il tessuto entro il quale si realizza la terapia. All’interno della narrativa passa il flusso di idee, emozioni, relazioni che conduce al cambiamento.
- “ La narrazione come terapia”: la narrazione e il cambiamento della narrazione sono il fine ultimo della terapia: se cambia la storia la terapia è stata efficace
Bibliografia
Antonietti, A. Rota, S. (2004) Raccontare l’apprendimento. Cortina, Milano.
Atkinson, R. (2002), L’intervista narrativa. Cortina, Milano.
Bruner, J. (2002), La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita. Laterza, Roma-Bari
Bruni F., Defilippi P. La tela di Penelope, 2007, Bollati Boringhieri editore srl Torino
Cattorini P. (2005). Narrare Il Dolore. Il ruolo delle Medical Humanities. La Rivista Italiana Di Cure Palliative;4: 27-32.
Costruire realtà. Un lavoro di lenti. Uscito nel 1990 su Family Process (29, 1-12), con il titolo “Constructing realities: An art of lenses”.Traduzione di Massimo Giuliani e Adriana Valle
Demetrio, D. L’autobiografia come cura di Sé. Cortina, Milano, 1996.
Demetrio D., Nel tempo della pluralità. La Nuova Italia 1997
Dinacci A. Narrate genti le vostre storie. La narrazione nella consulenza e psicoterapia sistemica. Liguori Editore srl, 2005
Fabbri, D. (1998), Narrare il conoscere. Appunti per una epistemologia della formazione.
Formenti L (1998). La narrazione autobiografica. Ed. Guerini: Milano.
Formenti, L. Gamelli, I. (1998), Quella volta che ho imparato: la conoscenza di sé nei luoghi
dell’educazione. Cortina, Milano.
Nanni A., 1996, La pedagogia narrativa: da dove viene e dove va, in: Raffaele Mantegazza, a cura di, 1996, Per una pedagogia narrativa, Bologna, EMI, p. 40
Tadié, JY. Tadiè, M.(2000), Il senso della memoria. Dedalo Edizioni, Bari.